05_ Storia di Elisa

Dentro le stanze degli studenti che vivono il contenimento sociale da Coronavirus la fantasia vola: e si immaginano personaggi, scenari, azioni. In una parola, storie inedite, mai viste, emozionanti e che ci fanno volare con la fantasia e provano ad immaginare mondi diversi: come la vicenda di un paese immaginario, un personaggio immaginario eppure molto reale. Elisa, sempre del Centro di Aggregazione Giovanile “Batti il tuo tempo” di via Marco Dino Rossi, ci racconta la sua storia e il titolo è “Chi vuol essere lieto sia, del doman non c’è certezza”.


Esisteva un tempo, in un certo posto di mondo, un uomo di età indefinita che aveva caratteri fisici piuttosto comuni, nulla di anomalo, di particolare; uno di quelli che non ti giri a guardarlo se passa per la strada. Certo è che fosse, rispetto ai suoi compaesani, un poco più trasandato e meno dedito alla cura personale. In questo risultava diverso, ma per il resto era perfettamente nella norma. Passeggiava spesso per il paese con un sorriso a trentadue denti stampato sulla faccia barbuta, canticchiava tra sé con un romanzo sempre nuovo tra le mani, e la sera lo trovavi spesso in osteria davanti a un boccalozzo di birra e un mazzo di carte, che passava spensierato il tempo in compagnia. I paesani lo chiamavano con un curioso soprannome, perché sembrava che un nome vero non ce lo avesse mai avuto. Le comari chiacchieravano sulle sue origini, e un giorno pareva che fosse orfano, un altro giorno che fosse un matto e che il suo nome se l’era dimenticato. Intanto, lo chiamavano Nullafá. Perché non faceva mai niente, eppure era contento.

Nullafá non lavorava, perché a detta sua nessun lavoro pareva andargli a genio. Non era uno che si lamentava della sua condizione. In compenso non aveva peli sulla lingua, ed era di un’onestà disarmante; una perla rara in quel paesino chiacchierone. Nonostante fosse un disoccupato nullafacente, Nullafá riusciva a stare simpatico a tutti. Trasportava buonumore ovunque andasse e per questo era ben visto dalla comunità, che ogni tanto si offriva di portargli anche qualcosina in più da mangiare, essendo lui un poverello senza lavoro. Quell’uomo se la passava benone, e non chiedeva mai niente a nessuno. Anzi, era molto generoso e disponibile per qualsiasi cosa. I lavoratori che che estraevano i geodi nella miniera finivano il turno esausti verso le tre del mattino, e Nullafá che abitava proprio lì vicino, li ospitava spesso e ben volentieri a riposare fino alle prime luci del sole, e talvolta anche oltre. Capitava che alle vecchie comari che intrecciavano le ceste di vimini sulle scale della Cappelletta Degli Dei, cadessero gli occhiali dal naso e non sapessero più dove andarli a raccattare, visto che erano cieche come le talpe. E Nullafá appariva sempre a soccorrerle quando succedeva, e loro lo ringraziavano e gli pizzicavano le guance ispide, e gli regalavano due o tre monetine di riconoscenza. Nullafá si arrampicava sugli alberi per far scendere gli scoiattolini domestici delle giovani signorine, aiutava i bimbi della scuola a portare i libri, e ogni tanto buttava la spazzatura al panettiere, che era solito ringraziarlo con una focaccetta alle erbe appena sfornata.

Passavano così le sue giornate, e mai lo si era visto piangere, essere triste o lamentevole. La gioia di vivere che lo pervadeva era un grande mistero per tutti, in paese. Ma era un’anima libera e vaga, alla costante ricerca di qualcosa che lo potesse rendere più felice, e non si sapeva quando e dove avrebbe mai messo radici e costruito qualcosa di serio nella sua vita. Tant’è che, una mattina d’inverno, il paesello si svegliò senza di lui. Nella casa di Nullafá rimaneva solo un letto sfatto e l’odore del caffè nella sua piccola cucina di legno. Se ne era andato a portare gioia altrove, ma dove non si sa.